Meccanismi paralleli nei cervelli di medico e paziente nel rapporto empatico

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 24 giugno 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il rapporto medico-paziente è radicalmente mutato durante lo scorso secolo, passando dalla bimillenaria tradizione che stabiliva una distanza tecnica, concepita in funzione dell’efficacia, tra un’autorità in possesso di un sapere capace di ristabilire la salute e una persona bisognosa di aiuto in quanto ammalata, ad una relazione tendenzialmente supportiva ed auspicabilmente empatica entro cui collocare il percorso dell’accertamento diagnostico seguito dall’intervento terapeutico. Il cambiamento è avvenuto principalmente per effetto dei progressi compiuti nelle conoscenze psicologiche e poi neuroscientifiche circa gli effetti neurobiologici degli stati mentali, per la nascita della medicina psicosomatica e poi della psiconeuroimmunologia, fondata da Robert Ader.

L’approccio integrato body-mind è diventato un must nella formazione psicologica del medico a partire dagli anni Novanta; poi, con la progressiva definizione in Italia della professione dello psicologo clinico come psicoterapeuta e la rivendicazione della specificità di ruolo da parte dei nuovi professionisti, si è un po’ tornati indietro, e in molti casi i medici sono tornati a occuparsi solo del “corpo ammalato” come nella prima metà del secolo precedente, lasciando allo psicologo gli aspetti psichici dei disturbi internistici e chirurgici. Tuttavia, non sono pochi i pazienti che desiderano parlare del proprio disagio psichico, dell’ansia, dell’insonnia, del dolore e di altri sintomi col medico che li sta curando e non trovano razionale separare l’esperienza soggettiva della sofferenza dal corpo ammalato e darne conto a qualcuno che non conosce né la patologia in generale, né la propria condizione clinica e l’eventuale azione di farmaci e altri mezzi terapeutici[1].

La nostra società scientifica porta avanti da vent’anni la tesi della necessità di insegnare nelle scuole di specializzazione in psichiatria ad istaurare e gestire un rapporto empatico col paziente non psicotico, per il contributo che può dare attraverso l’efficacia evocativa di stati funzionali desiderabili tale tipo di approccio all’intervento terapeutico.

L’esperienza empatica è studiata da tempo e le sue basi neuroscientifiche sono indagate come attività specifiche in reti e circuiti cerebrali mediatori di emozioni e stati affettivo-cognitivi, e oggi ci si interroga su questi processi associati all’empatia che intervengono nel rapporto medico-paziente. Oggi sappiamo che l’empatia e il supporto sociale possono influenzare in modo rilevante l’esperienza del dolore da parte del paziente, non solo perché modificano il vissuto soggettivo ma perché agiscono sull’intensità e l’estensione dell’attivazione centrale dei circuiti del dolore, in parte attivando il sistema inibitorio discendente che prende origine nel grigio periacqueduttale, in parte agendo su numerosi meccanismi neurotrasmettitoriali e recettoriali, modificando l’espressione genica di proteine implicate nello stato algico e riducendo la componente infiammatoria. Ma le nostre conoscenze attuali su ciò che accade nel cervello del paziente sofferente e del suo medico sono limitate dal fatto che originano quasi esclusivamente da analisi di singoli casi, la cui interpretazione si basa su studi più estesi e preclinici, ma genericamente rivolti all’individuazione delle basi neurofunzionali dello stato di empatia[2].

Dan-Mikael Ellingsen e colleghi hanno ideato e realizzato uno studio in cui hanno registrato simultaneamente l’attività cerebrale di pazienti sofferenti di dolore cronico, in circostanze di dolore evocato, e dei clinici che interagivano con loro, documentando ciò che accade nei due cervelli quando si stabilisce empatia tra medico e paziente. Lo studio è stato articolato in modo tale da fornire risultati inequivoci e significativi, documentando per la prima volta in modo rigoroso le possibili basi neurofunzionali dello stato empatico che si stabilisce nel rapporto psicoterapeutico o nella relazione medico-paziente.

(Ellingsen Dan-Mikael et al., Brain-to-brain mechanisms underlying pain empathy and social modulation of pain in the patient-clinician interaction. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.2212910120, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Physics and Computational Radiology and Nuclear Medicine, Oslo University Hospital, Oslo (Norvegia); Department of Psychology, Pedagogy and Law, School of Health Sciences, Kristiana University College, Oslo (Norvegia); Athinoula A. Martinos Center for Biomedical Imaging, Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School, Charlestown, MA (USA); Department of Physical Medicine and Rehabilitation, Spaulding Rehabilitation Hospital, Harvard Medical School, Charlestown MA (USA); Department of Anesthesiology, Brigham and Women’s Hospital, Boston, MA (USA); School of Social Sciences and Humanities, Endicott College, Beverley MA (USA); Program in Placebo Studies & Therapeutic Encounter, Harvard Medical School, Boston (USA); Department of Radiology, Logan University, Chesterfield, MO (USA):

Negli esperimenti condotti da Dan-Mikael Ellingsen e colleghi, i pazienti hanno sperimentato il dolore in isolamento o in presenza di un clinico con capacità supportiva, e in metà delle diadi l’alleanza terapeutica è stata rinforzata grazie a una precedente interazione clinica: l’osservazione dell’attività encefalica in queste condizioni ha già rivelato un primo dato consistente nella riduzione dei correlati oggettivi e soggettivi dell’intensità del dolore percepita dal paziente durante l’interazione col clinico. Si tratta sostanzialmente della conferma di una nozione ormai consolidata da più di un decennio, ma a questa osservazione fa subito seguito un elemento specifico di questo studio: la precedente interazione medico-paziente aveva accresciuto l’attivazione dei circuiti prefrontali somatosensoriali e, soprattutto, aveva aumentato la concordanza tra i pattern funzionali dei due cervelli interagenti. Questo aspetto suggerisce una concordanza simultanea, definita dagli autori del lavoro un two-brain mechanism, quale base dell’empatia nell’esperienza del dolore, e indica tale sintonia neurofisiologica come base di un rapporto terapeutico efficacemente supportivo.

Entriamo ora più in dettaglio nello specifico della procedura sperimentale.

Il setting è stato allestito con il fine immediato di studiare la dinamica dei processi cerebrali che supportano la modulazione sociale del dolore mediante la valutazione simultanea di attività cerebrale nei cervelli di clinico e paziente, rilevata con la metodica della risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional magnetic resonance imaging) mediante la tecnica dell’hyperscanning. I pazienti volontari erano sofferenti di dolore cronico e la condizione sperimentale di rapporto col clinico simultaneamente monitorato era ottenuta con un’interazione diretta (live) mediata da video. Nelle condizioni di saggio i pazienti ricevevano stimoli pressori banali oppure stimoli pressori dolorosi, ed entrambe le esperienze avvenivano nei due differenti contesti, di isolamento o di interazione col medico. E, dunque, le prove sono state distinte in diadiche e del paziente solo, con lo stimolo pressorio banale che creava la risposta fungente da confronto per la reazione al dolore.

In metà delle diadi, i partecipanti con ruolo medico avevano in precedenza avuto un incontro di consultazione clinica, durante il quale avevano stabilito un rapporto col volontario affetto da dolore cronico e ne avevano deciso l’ammissione alla sessione sperimentale. Tale incontro, che aveva determinato un’alleanza terapeutica tra medico e paziente, come è stato riportato dai volontari (self-report), era poi stato seguito dall’interazione clinica monitorata con l’hyperscanning.

L’altra metà delle diadi non aveva avuto un momento di conoscenza e interazione precedente, dunque l’hyperscanning dei due cervelli durante l’esperienza algica vissuta dal paziente mancava dell’apprendimento relazionale cerebrale legato all’incontro e, dunque, rilevava cosa accadeva in quella circostanza in due cervelli tra i quali non poteva esservi empatia.

Dopo le sessioni, i pazienti volontari hanno riportato nella condizione diadica una più bassa intensità del dolore rispetto alla circostanza in cui erano da soli, nonostante stimoli pressori algici identici. Nelle diadi di interazione clinica senza incontro precedente, i pazienti hanno stimato i propri medici come più abili nel comprendere il loro dolore, e, alla verifica, le figure mediche delle diadi sono risultate più accurate nel diagnosticare il grado di sofferenza dei pazienti.

Nelle diadi in cui c’era stato l’incontro di alleanza terapeutica precedente, le scansioni di fMRI hanno mostrato un’attivazione notevolmente più intensa delle regioni della corteccia prefrontale dorso-laterale e ventrolaterale (dlPFC e vlPFC), così come delle aree somatosensoriali primaria e secondaria (S1 e S2), configurando una differenza evidente, definita dagli autori dello studio Dyadic-Solo contrast, mentre contemporaneamente il cervello dei clinici mostrava un’accresciuta dinamica di dlPFC in concordanza con l’attività di S2 nella corteccia cerebrale del paziente durante la sua percezione del dolore. Inoltre, la forza della concordanza di S2-dlPFC è risultata essere positivamente correlata con l’alleanza terapeutica come riferita dai pazienti.

Questi risultati, oltre a costituire prove sperimentali a sostegno della tesi che l’empatia e il supporto medico-psicologico possono ridurre l’intensità della risposta algica cerebrale agli stimoli nocicettivi, forniscono nuovi elementi allo studio dei processi sottostanti la modulazione del dolore quale effetto dell’interazione medico-paziente. Infine, Dan-Mikael Ellingsen e colleghi affermano che le evidenze emerse suggeriscono che la concordanza tra l’attività della dlPFC dei clinici e l’elaborazione somatosensoriale durante il dolore da parte del cervello dei pazienti possa essere potenziata accrescendo l’alleanza terapeutica alla base della risposta empatica.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-24 giugno 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nei corsi di laurea in psicologia di orientamento clinico sono attualmente previsti insegnamenti biomedici, ma si tratta di una generica formazione culturale che non conferisce una competenza in biochimica, fisiologia, patologia, diagnostica, farmacologia e clinica necessaria ad affrontare la realtà dei problemi di una persona ammalata. Per questo motivo in molti paesi europei e d’oltreoceano si preferisce il medico psichiatra che nella formazione specialistica acquisisce competenze di psicologia (oltre quelle dell’esame di psicologia medica del curriculum medico-chirurgico precedente), di medicina psico-somatica, di psicodiagnostica e di psicoterapia.

[2] Per completezza si cita in proposito la dimostrazione del nostro presidente della fallacia dei criteri adottati per stabilire le basi cerebrali dell’empatia: ciò che si indaga sono le basi di una reazione comportamentale considerata empatica e si cerca di individuare elementi di attività che la caratterizzino, ma ciò che si ottiene con ogni probabilità consiste in contrassegni della reazione comportamentale nella circostanza sperimentale, e non attiene alla definizione dello stato cerebrale complessivo corrispondente al sentimento empatico.